Lo abbiamo sperimentato tutti. Soprattutto con gli smartphone. Quando lo compriamo è un fulmine. Ottime le foto, ottima la durata della batteria, ottimo il sistema operativo. Nessun intoppo, nessun blocco, nessun problema. Inizia la luna di miele. Per qualche mese non c’è nessun problema.
Siamo contenti del nostro acquisto e non vorremmo mai tornare al modello precedente. Poi l’incanto si rompe. Il sistema operativo è lento. La batteria fatica ad arrivare a cena. Dobbiamo cominciare a rimuovere le app e le foto per fare spazio.
Spesso diamo la colpa alle nostre cattive abitudini. Certo. Quando acquistiamo lo smartphone lo trattiamo come se fosse un cucciolo appena venuto al mondo. Sempre ben riposto nelle tasche, adagiato su comodi panni, mai lanciato, mai fatto cadere. Poi, quando comincia a non funzionare, è già tanto se non diventa un sottopentola quando siamo di fretta per cucinare la cena. Eppure non sono solo le cadute a danneggiarlo ma anche l’obsolescenza programmata, una sorta di data di scadenza che accompagna tutti i dispositivi elettronici.
I casi in cui l’obsolescenza programmata è stata palese (o sospetta)
La percezione è comune, soprattutto per i prodotti elettronici. Ma non sempre è facile da dimostrare. A volte basta leggere la garanzia, quella obbligatoria per la maggior parte dei prodotti elettronici è di due anni. Guardando alla storia della tecnologia ci sono stati però casi in cui l’obsolescenza programmata è stata talmente palese da diventare impossibile da negare. Nel 1924 le più grandi aziende di lampadine del mondo si sono trovate a Ginevra per firmare la Convenzione per lo sviluppo e il progresso dell'industria internazionale delle lampade elettriche a incandescenza. In pratica, un cartello per decidere prezzi e caratteristiche del prodotto.
Fra queste indicazioni c’era anche la durata: le lampadine dovevano poter emettere luce per un massimo di 1.000 ore. Il vantaggio è evidente. Le lampadine sono, come gli smartphone di oggi, un prodotto essenziale per poter vivere nelle società industrializzate. I modi per evitare sia lampadine che telefoni esistono, ovviamente, ma non sono di facile applicazione. Se quindi una persona avrà sempre bisogno di almeno una lampadina nella sua vita, perché venderne una che dura cinque anni, quando posso venderne cinque che durano un anno?
Guardando a tempi più recenti, nel 2003 Epson ha dovuto fronteggiare una class action organizzata da un’associazione di consumatori olandesi per le cartucce delle sue stampanti. L’accusa era quella che le cartucce risultavano vuote quando invece c’era ancora una buona percentuale di inchiostro da utilizzare. La vicenda è continuata per anni. Prima Epson ha pubblicato un documento dove si chiariva il numero di fogli che poteva stampare ogni cartuccia, poi l’associazione dei consumatori ha ritirato la class action e poi ancora l’azienda ha deciso di accordare un buono sconto per chi aveva acquistato una sua stampante.
Il progetto della Commissione Europea per fermare l’obsolescenza programmata
In questi giorni la Commissione Europea ha presentato un disegno di legge per contrastare l’obsolescenza programmata. La formula in inglese è right to repair, diritto alla riparazione. E prevede la possibilità di riparare un dispositivo elettronico, dagli smartphone ai pc, anche oltre la fine della garanzia. L’obiettivo della Commissione quindi è “rendere più semplice ed economicamente vantaggioso per i consumatori riparare anziché sostituire i beni”. C’è anche un tema di sostenibilità: più smartphone riparabili vuol dire anche meno rifiuti elettronici.
Una strada del genere è già stata presa da alcuni produttori, anche fra i brand più noti. L’ultimo modello di smartphone commercializzato da Nokia è fatto apposta per poter essere riparato. Si chiama G22 ed è stato sviluppato insieme iFixit, un portale dove vengono venduti pezzi di ricambio per smartphone e strumenti per la loro riparazione. Altri brand più piccoli, come Fairphone, puntano invece da anni sulla possibilità di far riparare i loro smartphone ai clienti.
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